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Cosa implica dal punto di vista sociale un uomo che si muove con una coscienza così come l’ha descritta Carrón? Qual è il contesto in cui si trova a confrontarsi?

 

1. L’homo homini lupus di Thomas Hobbes

Le teorie oggi dominanti leggono l’azione economica, sociale e politica a partire da un’antropologia negativa. Lo statalismo oggi imperante si basa sulla sfiducia e il sospetto, cioè su una concezione di uomo negativa che ne mortifica le potenzialità e il positivo contributo che il singolo uomo può dare al bene comune, al progresso e alla lotta per la giustizia. Cosa avviene con Hobbes, quindi in tutta la modernità?

 

Il punto di partenza della concezione hobbesiana è la riduzione della natura a impulso di autoconservazione che determina tutti i comportamenti dell’uomo, dal profondo. Ma allora, in quanto l’uomo è spinto a conservare la propria esistenza fisica e a espandere il proprio potere sulle cose, l’uomo è, in linea di principio, ostile a ogni altro uomo: homo homini lupus. Ma se è così, solo il calcolo razionale del vantaggio e della sicurezza può indurre l’uomo a imporsi il vincolo sociale, a imporsi le leggi. Hobbes dice una cosa semplice, banale persino, ma gravida di conseguenze distruttive. Dice che la società non è una dimensione originale, cioè non è legata a quelle esigenze ed evidenze di verità, giustizia, bellezza che costituiscono la natura umana, ma è il frutto di un contratto.

 

Da questa idea negativa, deriva anche una concezione di uomo svincolato da ogni concreta appartenenza. Secondo questa mentalità, ogni forma di organizzazione sociale, movimento, realtà organizzata deve essere vista con sospetto. Dovrebbero esistere solo l’individuo e lo Stato, e il rapporto tra i due dovrebbe essere mediato solo da qualche padrone del vapore mediatico e da qualche intellettuale illuminato che, come demiurghi tra la terra e il cielo, indicano ai cittadini, ridotti a burattini, quali sono i comportamenti virtuosi.

 

Il punto dove vediamo meglio espressa questa concezione negativa dell’uomo è – oltre che in una certa pubblicistica – a proposito del sistema del welfare (istruzione, sanità, assistenza…). Pensiamo a un passaggio fondamentale della storia d’Italia, il momento in cui lo Stato, sotto il governo Crispi, alla fine dell’800 afferma che l’assistenza sociale non può più essere gestita dalla Chiesa, o dalle associazioni private, ma compete per intero allo Stato. Solo lo Stato può assumersi questo compito e realizzare il bene collettivo. Così, con questa scusa, ingloba tutti i beni ecclesiastici. Queste idee sono profondamente radicate dentro di noi, infatti ragioniamo sempre nei termini di un’antinomia fra Stato e privato, il primo organizza il bene comune, il secondo organizza l’egoismo.

 

Secondo Pierpaolo Donati [1] , il pensiero di Hobbes fa sì che nel welfare moderno sia sminuita l’importanza delle formazioni sociali intermedie, e sia limitato il pluralismo sociale come elemento costitutivo del welfare. Continua a dominare l’idea che qualunque intervento del privato nell’assistenza, nella sanità, nell’educazione, nel tempo libero sia portatore di interessi particolari in contrasto con il bene comune, misconoscendo il fatto che ci siano ideali che fanno muovere le persone per il beneficio della collettività, come mostra la realtà, anche storica.

 

1. Donati Pierpaolo (2007), “Sussidiarietà e nuovo welfare: oltre la concezione hobbesiana del benessere”, in Vittadini G., (a cura di), Che cosa è la sussidiarietà. Un altro nome della libertà, Guerini e Associati, Milano, pp. 27-50.

 

Allo stesso modo è vista come una minaccia l’iniziativa di quelle amministrazioni che, per superare i limiti di un welfare state inefficiente e inefficace, e ispirandosi a interventi tipici della sinistra europea di tipo blairista, fa sì che i cittadini scelgano gli erogatori di servizi più capaci di rispondere ai loro bisogni tra quelli accreditati in base alla loro qualità. Questo sistema, oltre a ridare potere ai cittadini, impedisce che i politici possano favorire in modo clientelare alcune realtà. Pensate ai sistemi dei voucher e delle doti, agli accreditamenti nel campo della formazione professionale, alla libera scelta nel campo dei servizi sanitari: perché si evita di verificare e misurare quanto questi metodi abbiano portato più efficacia, efficienza e soddisfazione dell’utente? Meglio gridare all’untore…!

 

2. La “mano invisibile” di Adam Smith

Apparentemente mossa da una logica opposta, l’immagine di società tipica del liberismo di stampo neoclassico è in realtà fondata sulla stessa antropologia negativa. Alla base dell’immagine di società tipica di questa ideologia c’è un’idea di individuo puramente egoista che risponde esclusivamente a motivazioni economiche, sia che svolga un compito assegnato da un superiore, sia che costruisca un’azienda in proprio.

 

È l’idea della "mano invisibile" che questa scuola di pensiero economico ha tratto da Adam Smith, una mano invisibile che guida i singoli interessi privati al di là delle loro specifiche intenzioni, componendoli in una totalità che sfugge allo sguardo parziale dell’individuo. È una certa lettura ideologica, basata su un’antropologia negativa, quella che trasforma la “mano invisibile”, che in Adam Smith è una metafora usata per descrivere ai più la constatazione di un fatto (che le azioni dell’uomo hanno una portata che spesso, se non sempre, eccede le intenzioni del singolo) [2], in un principio teorico per cui il puro interesse individuale è ritenuto sufficiente a costruire un ordine economico collettivo, il benessere comune [3].

 

Ne deriva, anche in questo caso, una concezione di individuo e azienda svincolata da ogni appartenenza intesa come collusiva in quanto distorcente il mercato, in una “concorrenza darwiniana” distruttiva tra aziende, secondo l’espressione usata dal cardinal Schönborn tre anni fa al Meeting di Rimini. C’è voluta questa nuova crisi, dopo quella del ’29, a minare alla radice questa utopia neoclassica cara a molti editorialisti dei giornali alla pagè di tutto il mondo – e anche nostri-, cara ad alcuni premi Nobel, i cui principi erano alla base di imprese che sono fallite, e cara a certe scuole economiche, anche nostrane, che sembra non si siano neanche accorte di aver mandato in malora la vita di milioni di persone. E stentano ancora a fare autocritica.

 

2 Cfr. Smith Adam, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776. Ch.2, “Of Restraints upon the Importation from Foreign Countries”

 

3 Su questo tipo di interpretazione, cfr. G. Kennedy (2009), Adam Smith and the Invisible Hand: from Metaphor to Myth, Economic Journal Watch, 6, 2 , pp. 239-263.

 

3. L’esperienza elementare di Luigi Giussani

Cosa opponiamo a queste concezioni? L’esperienza elementare è ciò che può fondare un’antropologia positiva. Nella dizione di Luigi Giussani essa indica la percezione inevitabile di ciò che l’uomo cerca in tutte le cose: «Si tratta di un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. La natura lancia l’uomo nell’universale paragone, con se stesso, con gli altri, con le cose, dotandolo – come strumento di tale universale confronto – di un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende» [4]. In altre parole la partenza dell’uomo è positiva, l’uomo non è innanzitutto mosso da impulsi negativi.

 

È una concezione di uomo mosso da un impulso positivo in sé e verso altri uomini, quella che viene documentata anche nell’enciclica Caritas in veritate che parla dell’uomo come essere sociale a immagine della Trinità: «Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente l’uno accanto all’altro. […] La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale» (N. 53). E ancora, «[…]Questa prospettiva trova un’illuminazione decisiva nel rapporto tra le Persone della Trinità nell’unica Sostanza divina. La Trinità è assoluta unità, in quanto le tre divine Persone sono relazionalità pura» (N.54).

 

Del resto, anche in un passaggio dimenticato dello stesso Smith si legge che l’uomo, anche se spesso può muoversi con sguardo parziale, è tuttavia costituito da qualcosa di più grande, ha dentro di sé il principio della condivisione e dell’incontro. Quello che Smith chiama simpatia (anche se non sa dire chiaramente da dove derivi): «Per quanto l’uomo possa esser supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo inducono a interessarsi alla sorte altrui e gli rendono necessaria l’altrui felicità, sebbene egli non ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla.

 

Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che sentiamo per le miserie degli altri quando le vediamo o siamo indotti a concepirle in modo molto vivido. Che noi spesso ricaviamo dispiacere dal dispiacere altrui è un dato di fatto troppo ovvio per richiedere esemplificazioni che lo provino, giacché questo sentimento, come tutte le altre passioni originarie della natura umana, non è affatto prerogativa esclusiva di chi è benevolo o virtuoso, sebbene, forse, costui possa sentirlo con la più squisita acutezza. Nemmeno il peggior furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società, ne è del tutto privo» [5].

 

Il macellaio o il fornaio e l’acquirente possono scambiarsi danaro e beni con reciproco interesse, senza farsi violenza, in forza di qualcosa che “sta prima”, nella loro stessa natura, e che una storia lunga, secolare, di educazione e cultura, ha tradotto in comportamenti e istituzioni.

 

L’indicazione dell’esperienza elementare è anche l’unica risposta praticabile, effettiva, a una concezione relativistico-multiculturalista del rapporto fra uomini e culture. Giussani si domanda: ma perché «uomini di tutti i tempi, di tutte le razze, accostano tutto, al punto che essi possono vivere tra loro un commercio di idee oltre che di cose, e possono trasmettersi l’un l’altro ricchezze anche a distanza di secoli»? Risposta: «perché questa esperienza elementare è sostanzialmente uguale in tutti, anche se poi sarà determinata, tradotta, realizzata in modi diversissimi e apparentemente persino opposti» [6].

4 Giussani Luigi (2003), Il senso religioso, Rizzoli, Milano, pp. 8-9.

 

5 Smith Adam, The Theory of the Moral Sentiments, 1759, printed for A. Millar in London and a. Kinkair and J. Bell in Edinburgh; tr. it. Teoria dei Sentimenti morali, Rizzoli, Milano 1995, capitolo 1 – "Della simpatia".

 

6 Giussani Luigi (2003), Il senso religioso, op cit., p. 13.

 

4. Il valore dei movimenti

Quella di cui stiamo parlando non è una concezione utopisticamente “ottimista”. Noi sappiamo che l’esperienza del senso religioso è continuamente tradita dall’uomo, che esistenzialmente non riesce a reggere questa tensione costitutiva della sua natura. Tale tradimento è favorito nella situazione del mondo contemporaneo, dove la mentalità dominante tende a ridurre sistematicamente i desideri dell’uomo, cercando di governarli, di appiattirli, fino a creare, come afferma ancora Giussani «lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti» [7].

 

Ma non può essere uno Stato hobbesiano a curarlo. È ancora il dinamismo del senso religioso e del desiderio a rispondere a questa inevitabile caduta, perché spinge a mettersi insieme intorno a criteri ideali: «È impossibile che la partenza dal senso religioso non spinga gli uomini a mettersi insieme. E non nella provvisorietà di un tornaconto, ma sostanzialmente; a mettersi insieme nella società secondo una interezza e una libertà sorprendenti (la Chiesa ne è il caso più esemplare), così che l’insorgere di movimenti è segno di vivezza, di responsabilità e di cultura, che rendono dinamico tutto l’assetto sociale» [8].

 

I corpi sociali, le comunità intermedie non sono luoghi idilliaci, “puri”, dove non esista più la riduzione del desiderio, l’errore, l’egoismo denunciato da Hobbes. Sono piuttosto realtà dove una continua educazione a una riscoperta delle proprie esigenze strutturali aiuta le persone, in modo drammatico e mai concluso, a crescere, a prendere consapevolezza di sé e della realtà, a educare il proprio desiderio difendendolo contro le riduzioni proprie e del potere.

 

La conciliazione tra interesse del singolo e bene comune non avviene in modo coercitivo e repressivo, come nello schema hobbesiano, ma in una continua educazione all’esperienza della corrispondenza tra cuore e realtà, che rappresenta la vera soddisfazione, convenienza e libertà dell’uomo, anche in termini operativi, poiché, come dice ancora Giussani: «I movimenti non riescono a rimanere nell’astratto, ma tendono a mostrare la loro verità attraverso l’affronto dei bisogni in cui si incarnano i desideri, immaginando e creando strutture operative capillari e tempestive che chiamiamo “opere”, “forme di vita nuova per l’uomo”, come disse Giovanni Paolo II al Meeting di Rimini nel 1982, rilanciando la Dottrina sociale della Chiesa. Le opere costituiscono vero apporto a una novità del tessuto e del volto sociale» [9].

 

Il principio di sussidiarietà, proprio della Dottrina sociale della Chiesa, ha a che fare con questa impostazione antropologica. Le persone sono, nella loro “mossa” ultima, desiderio irriducibile di bene; essendo per natura esseri relazionali si mettono insieme in movimenti e realtà associative determinati da criteri ideali che li sorreggono in questo cammino e li stimolano a costruire opere in risposta ai bisogni degli uomini; lo Stato è concepito a servizio di tali realtà e perciò delle persone.

 

Per questo nel nostro slogan diciamo che la sussidiarietà è l’altro nome della libertà. Questa è un’idea rivoluzionaria, non solo sotto il profilo antropologico, ma anche sotto il profilo sociale. È ciò che il papa dice ancora nell’Enciclica Caritas in veritate: «Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene» (N. 7).

 

7 Giussani Luigi (2000), L’io, il potere, le opere. Contributi da un’esperienza, Marietti, Genova, p.168.

 

8 Giussani Luigi (2000), op cit., p. 168.

 

9 Giussani Luigi (2000), op cit., pp. 168-169.

 

5. Un nuovo rapporto tra realtà sociali e Stato: le conferme di Kenneth Arrow e Lester Salamon

Due grandi studiosi ci mostrano come questa concezione si sposi con le teorie più moderne e comprensive della società e dello Stato.

 

Il Premio Nobel Kenneth Arrow, in un testo classico dell’economia contemporanea sul nesso tra utilità individuali e benessere collettivo, rivoluziona il paradigma hobbesiano. Arrow cerca di delineare le regole razionali a cui sottostanno le preferenze individuali e i loro possibili nessi con le scelte collettive. Che cosa determina il manifestarsi di ordinamenti virtuosi nelle preferenze individuali? Arrow dice: «L’ordinamento rilevante per il raggiungimento di un massimo sociale è quello basato sui valori, che rispecchiano tutti i desideri degli individui, compresi gli importanti desideri socializzanti» [10].

 

Contro le utopie neoclassiche e i paradigmi hobbesiani, il suo contributo arriva a conclusioni analoghe a quelle cui arriva don Giussani, in un altro contesto e seguendo altri metodi. Entrambi individuano nel “desiderio socializzante” il cuore di azioni politiche ed economiche che si muovano verso la democrazia e un mercato non dominato da convenzioni imposte che lo soffochino. Tali desideri sono lo strumento per generare aggregazioni dove gli individui, per consenso ideale e non per coercizione, si accordino alla ricerca di un bene comune che soddisfi ognuno e costruiscano iniziative economiche che concilino utilità individuale e benessere collettivo.

 

In un recente convegno internazionale che abbiamo organizzato sul “Caso Oliver Twist”, Lester Salamon, professore della Johns Hopkins University, uno dei più grandi esperti mondiali di non profit, ha affermato: «Ci sono due impulsi apparentemente in contraddizione l’uno con l’altro: da una parte l’impegno radicato verso la libertà e l’iniziativa individuale e dall’altra parte il concetto, ugualmente fondamentale, che tutti noi viviamo in una comunità e abbiamo la responsabilità di andare oltre noi stessi ed adoperarci per il bene dei nostri simili. Quello che c’è di speciale e unico nei soggetti che fanno parte del Terzo Settore, è che combinano questi due impulsi, producendo così una serie di istituzioni sociali che si dedicano alla mobilitazione dell’iniziativa privata per il bene comune».

 

Ciò porta sul piano politico al superamento della contrapposizione tra pubblico e privato mosso da criteri ideali. Secondo la visione del mondo neo-liberale ci sono solo due modelli di base del welfare: uno dove domina l’intervento statale e dove viene compresso il ruolo delle realtà non profit, della società civile, di movimenti e associazioni; l’altro modello, alternativo, dove è ridotto al minimo l’intervento dello Stato a favore delle suddette realtà.

 

10 Arrow K. J. (2003), Scelte sociali e valori individuali, ETAS, Milano, p. 21.

 

Questa contrapposizione Stato-privato, che purtroppo ancora domina nel mondo politico di destra e di sinistra e in molti commentatori, giornalisti e studiosi, non descrive la realtà dei fatti.

 

Le ricerche empiriche di Salamon sul Terzo Settore negli Stati Uniti hanno infatti mostrato che la crescita del welfare state durante il New Deal degli anni ’30 e la Great Society degli anni ’60, non ha affatto diminuito il Terzo Settore, anzi, negli anni ’60 si è addirittura assistito ad una crescita delle realtà non profit come non mai nella storia statunitense. E la stessa cosa è successa nei welfare state europei (Germania, Paesi Bassi, Belgio, Irlanda), dove si sono create delle partnership tra il pubblico e il privato sociale.

 

Concludeva Salamon nel convegno citato: «Possiamo quindi miscelare governo, mondo delle aziende profit e non profit in mille modi e in nuovi modi efficaci». Perché chi afferma questo in Italia passa per utopista o fautore di sistemi clientelari? Perché in certa pubblicistica, in certa accademia e in certa politica deve dominare un mediocre e presuntuoso provincialismo che si nutre di ignoranza colpevole di ciò che c’è di meglio e di nuovo nel mondo?

 

6. Una nuova concezione di impresa

Se questo vale per il mondo del welfare, la concezione di uomo di cui abbiamo parlato è all’origine anche di un’altra concezione di impresa più realisticamente attenta al bene comune.

 

Quanto detto sul desiderio di verità, di bellezza e di giustizia che c’è nel cuore dell’uomo è il vero punto da cui nasce un’idea d’impresa moderna: la produzione nasce dall’osservazione della realtà e dalla capacità di trasformarla, attraverso un ingegno creativo, immaginando l’utilità per sé e per chi riceverà il frutto di tale operato. È il concetto di valore d’uso che è all’origine del valore di scambio. Non è cancellato il riferimento al profitto, ma il profitto è un misuratore dell’attività economica, non l’unico scopo. Altrimenti perché uno non dovrebbe vivere di rendita (ammesso che trovi un fondo che sia sicuro…)?

 

Ne deriva il fatto che l’origine della creazione di valore nell’impresa è la persona, non la risorsa umana, che ne sottolinea un aspetto parziale, quello del rendimento. L’uomo non è “una risorsa”, un uomo è un uomo. François Michelin, quando intervenne al Meeting di Rimini, ci corresse su questo: l’uomo va chiamato “persona”, non “risorsa umana”, cioè va considerato nella sua integralità. È il contrario di certi schemi di formazione aziendale che bollano appartenenze e ideali come nemici dell’impresa. Avere una famiglia, dei legami, dei rapporti, dei valori, è un bene per l’azienda, anche se appartengono a qualcosa di diverso dall’azienda.

 

È il contrario della lotta di classe soprattutto applicata alla piccola e media impresa: come ha dimostrato un recente Rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà, Sussidiarietà e… piccole e medie imprese [11], c’è un interesse del piccolo e medio imprenditore ad allearsi con il lavoratore, a creare posti di lavoro e rendere l’impresa, anche a proprie spese, un luogo dove i lavoratori stiano bene.

 

11 Cfr. Rapporto sulla sussidiarietà 2008, Sussidiarietà e… piccola e media impresa, a cura di Fondazione per la Sussidiarietà, Mondadori Università, Milano 2009.

 


Come ci insegna Bernhard nei suoi corsi della Scuola d’Impresa, qual è la genialità di un capo di azienda? Quella di trovare i punti di forza dei collaboratori. Ciò implica anche l’idea di una formazione permanente che, benché desueta, è cruciale per l’impresa moderna. Ne nasce un’idea diversa di concorrenza: dal Rapporto citato emerge che prevale sulla “competizione darwiniana” di tipo neoclassico una tendenza a condividere con i concorrenti l’impegno nella ricerca, nello sviluppo, nelle strategie per migliorare la competitività e l’internazionalizzazione.

 

7. Replicabilità: il valore del soggetto

Questo approccio è l’unico che permetta una vera replicabilità delle esperienze virtuose nella società.

 

Nella tesi di dottorato in cui Ilaria Schnyder analizza alcuni progetti di Avsi viene detto, a proposito della riproducibilità: «Se con essa si intende la definizione di metodologie o tecniche d’intervento utilizzabili in altri contesti o situazioni in modo meccanico a prescindere dalle persone chiamate ad utilizzarle, è evidente che, per quanto emerso fino a questo momento, l’esperienza degli interventi a Novos Alagados/Ribeira Azul non è meccanicamente replicabile.

 

D’altra parte, proprio l’analisi di questa esperienza fa nascere la domanda se possa veramente esistere un’esperienza di sviluppo indipendente dalle persone implicate. Si deve perciò ripensare al concetto stesso di riproducibilità “in termini non meccanici, ma umani, ossia in cui nuove persone si coinvolgano con queste esperienze positive in prima persona, riproponendole in altri luoghi. Questo evidentemente va in una direzione completamente diversa dalla visione prevalente che privilegia il meccanicismo, la rapidità e la neutralità degli operatori» [12].

 

È il soggetto umano, finalmente riconciliato con se stesso, portatore di un desiderio non ridotto, in positiva relazione con altri uomini in esperienze associative e di movimenti che lo educano e lo correggono continuamente rispetto ai suoi inevitabili errori, che replica esperienze virtuose, nel mondo dell’impresa e nel welfare, per il bene suo e per il bene comune.

 

Questa è l’esperienza che sta alla radice della Compagnia delle Opere – con buona pace di tutti. Spero che altri la imitino, mentre noi continueremo a seguirla.

 

12 Ilaria Schnyder von Wartensee, Dalle politiche alle dinamiche di sviluppo: l’importanza dei soggetti, Università Bocconi, Dottorato di ricerca in Diritto internazionale dell’economia, 2009 Tutor: Prof. Alberto Brugnoli.


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