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Comincia con questo articolo la pubblicazione (prevista in tre parti) di un ampio contributo dedicato al tema del rapporto tra diritti fondamentali, giudici e politica. Gli autori sono Tomaso Emilio Epidendio e Guido Piffer, magistrati.
Sommario: 1. Premessa: l’epoca dei diritti-desiderio. 2. Il problema della proliferazione dei diritti. 3. Il giudice come tutore dei diritti: giudice classico e giudice romantico. 4. Fonti sovranazionali e argomentazione per diritti. 5. L’esempio del fine vita. 6. Il caso della direttiva rimpatri. 7. Il linguaggio dei diritti. 8. Recuperare la categoria del diritto come rapporto. 9. L’oltre del diritto: sentimento di giustizia e diritto. 10. Il rischio della tirannia dei valori e la sfida di un corretto uso della ragione.

1. Premessa: l’epoca dei diritti-desiderio

Parlare in modo non banale di diritti fondamentali in rapporto al ruolo del giudice ed alla inevitabile dimensione politica della giurisdizione coinvolge argomenti aventi una forte componente tecnica (il sistema delle fonti, l’ermeneutica giuridica, il sistema di common law e di civil law, ecc.): la sfida che consapevolmente accettiamo nel pubblicare questo contributo è quella di tentare di rendere accessibili tali problematiche anche ai non giuristi. 
Per mostrare quanto sia concreta questa esigenza e di quanto pervasivo sia ormai diventato il “linguaggio dei diritti” basta vedere come una nota catena di esercizi commerciali abbia recentemente lanciato una campagna pubblicitaria proponendo, con comunicazioni “on air” e con cartelloni pubblicitari affissi dappertutto (dai tram alle strade), una propria “carta dei diritti” (“ogni cliente ha diritto al prezzo più basso 365 giorni l’anno”) proponendo la propria organizzazione e le persone che ne fanno parte come “quelli dei diritti”.
Se il linguaggio dei diritti dell’uomo e la sua articolazione in “carte” nelle quali proclamarli sono stati considerati come un efficace mezzo di comunicazione pubblicitaria, allora vuol dire che, da un lato, questo tipo di linguaggio ha raggiunto una diffusività che lo rende comprensibile a chiunque e, dall’altro, che alla parola “diritti” è ormai associata una tale connotazione emotiva positiva da poter essere utilizzata per persuadere e ottenere la fiducia di chiunque: il diritto è quindi divenuto anche un efficace artificio retorico. 
Si tratta di una deriva di una lunga strada, quella che ha visto, dall’assolutismo alle Costituzioni del secondo dopoguerra, i diritti fondamentali assolvere una essenziale funzione di garanzia individuale del cittadino nei confronti dello Stato: si pensi ad esempio al diritto di professare la propria fede religiosa, al diritto di riunione e di associazione, al diritto  di manifestare il proprio pensiero, diritti tutti che non possono essere compressi dallo Stato al di fuori di casi eccezionali e per tutelare interessi eguali o preminenti rispetto all’interesse che è alla base del diritto riconosciuto. Le codificazioni dei diritti dell’uomo e il linguaggio relativo hanno portato benefici all’umanità intera e hanno consentito alle esperienze giuridiche occidentali di porsi in molti casi addirittura come un modello di riferimento.
In questi ultimi anni, tuttavia, i diritti fondamentali hanno iniziato a cambiare fisionomia, inaugurando un’ultima fase che potremmo chiamare dei diritti-desiderio: in essa si assiste alla rivendicazione come diritto di qualunque pretesa soggettiva, cioè di qualunque desiderio, espressione di una concezione dell’esistenza individualistica (ciò che esiste è solo il singolo con le proprie aspirazioni) e relativistica (non esiste nessun criterio oggettivo di giudizio esterno al soggetto). Intendendo per “sentimento” la tensione verso ciò che è avvertito come bene a prescindere da ogni considerazione razionale di tale tensione e del suo oggetto, si potrebbe dire che la categoria del “diritto-desiderio” è espressione di una mentalità in balia del sentimento

2. Il problema della proliferazione dei diritti