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Umberto Eco inizia i suoi studi occupandosi dell’estetica di san Tommaso. Trent’anni dopo, nel 1987 pubblica Arte e bellezza nell’estetica medievale, in cui passa in rassegna il pensiero sul bello di quei secoli che restano nell’opinione comune secoli bui, nonostante la rivalutazione di tanti studiosi e la possibilità data a chiunque di apprezzare ciò che hanno donato all’umanità nella letteratura e nell’arte. Appare un po’ contraddittorio che chi ha potuto accostare e leggere con tanta perizia testi così pieni di sapienza abbia nel frattempo scritto Il nome della rosa. Ma è solo un inciso.

Il pregio del saggio sul bello nel Medioevo sta nella quantità di fonti volte a documentare la sensibilità estetica medievale dal suo interno, cogliendone la diversità da quella dei moderni. Solo la conoscenza superficiale dei testi e la conseguente incomprensione della mentalità medievale portano a ritenere il medioevo un’epoca di negazione moralistica del bello sensibile.

Accanto all’amore per il deposito della tradizione classica, biblica e patristica, accanto alla meraviglia per la natura avvertita come riflesso della trascendenza, è viva anche una fresca attenzione nei confronti della realtà sensibile. Appare così negli scritti di Isidoro di Siviglia, dei maestri della scuola di Chartres, di san Bernardo, di san Tommaso, di san Bonaventura un mondo non libresco, non solo fatto di concetti astratti, ma attento a esperienze concrete; il campo dell’interresse estetico di questi maestri è più dilatato di quello dei moderni intellettuali, perché la loro attenzione per le cose è stimolata dalla coscienza della bellezza come dato metafisico.