Seleziona una pagina

Ma in virtù di cosa noi possiamo capire il differenziarsi delle culture? Secondo la posizione citata nell’articolo precendente, lo possiamo fare solo sulla base del loro comune carattere di “finzione”: se tutte sono inganni o auto-inganni, allora le differenze saranno variazioni su questo unico tema. Tanto è necessario trovare un base comune per poter riconoscere, comprendere e anche giustificare le differenze, che se ne deve trovare una – l’unica possibile, a questo punto – nell’illusorietà, nuova “sostanza” di una natura umana de-sostanzializzata, residuo di universalità in negativo. Ma ci si potrebbe chiedere: l’illusorietà della finzione è il punto zero, non ulteriormente questionabile, dell’interpretazione? Oppure essa è a sua volta l’esito di un’interpretazione pre-giudiziale del fenomeno che si vuole comprendere? Se anche rinunciassimo – ritenendola pretestuosa o violenta – alla pretesa di giudicare un’identità culturale come più o meno “vera” o “giusta” rispetto ad un’altra (“occidente” rispetto a “oriente”, “cristianesimo” rispetto a “islam”, laicità rispetto a religiosità, modernizzazione globalizzata rispetto a tradizione di valori ecc.), non possiamo però rinunciare al riconoscimento che è vera ed è giusta la domanda stessa o l’esigenza strutturale che in ciascuna di esse mette in azione la produzione antropologica, anche se quest’ultima alla fine dovesse risultare una consapevole finzione. Per assumere consapevolmente una finzione come risposta al proprio bisogno di significato, bisogna pure che tale bisogno sia avvertito come un dato imprescindibile della nostra condizione di uomini. La “natura” umana è tale che sulla sua base l’uomo può essere chiamato l’animale che pone domande: e qui si radica quella simpatia tra le culture e le diverse identità che sta al fondo di tutte le loro possibili differenze.

Si noti inoltre che l’insistenza sul fatto che l’essere umano non ha l’identità di una sostanza naturale tra le altre, ma è piuttosto un processo di auto-realizzazione dinamica e storico-culturale di per sé non annulla affatto, né teoricamente né praticamente, l’ipotesi che tale dinamica venga mossa da un’interrogazione fondamentale, quella sul significato di sé, della propria comunità di appartenenza e sul mondo intero. E viceversa, la verità della natura o della condizione umana costituisce un livello che, lungi dall’essere predeterminato una volta per tutte, accade e si produce storicamente. Il domandare degli uomini concreti, in carne ed ossa, sempre determinati in precise condizioni spazio-temporali è il modo in cui ogni identità fa esperienza di un fenomeno comune, per quanto diversi o addirittura opposti possano essere i tentativi di risposta. Per questo il confronto tra le identità e le culture è possibile solo se è di continuo riaperto il confronto, all’interno di ogni identità e cultura di appartenenza, tra le domande di fondo e le risposte storiche, tenendo conto in particolare della pertinenza e del tasso di soddisfazione che le seconde possiedono rispetto alle prime. Il gioco non potrà che essere sempre aperto, mai definito assolutamente o per sempre, ma sempre riaffermante l’accadere del nesso tra la domanda di senso e la sua produzione.

continua in http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=121524